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Il cantastorie secondo Ira Glass

 Vi giro un post che ho letto sul blog del Center for Digital Storytelling, post che l’autrice Allison Myers ha ripreso a sua volta da Aerogramme Writers’ Studio.

Il tema è quello della narrazione, in generale, e della narrazione radiofonica e televisiva, in particolare. Quel geniaccio di Ira Glass – voce storica della radio pubblica americana, ideatore (insieme a Torey Malatia), conduttore e produttore esecutivo di “This American Life” – ci parla in una serie di quattro video di come si costruisce una buona storia per la radio o la tv.

Provo a riassumere il succo del discorso.

1 – Partiamo dalle basi

Due sono gli elementi fondamentali di un buon racconto (Glass li chiama building blocks): l’aneddoto e il momento della riflessione. L’aneddoto è la storia nella sua forma più pura; grazie alla sua potenza anche la trama più noiosa può diventare interessante. L’aneddoto è una sequenza di eventi o di azioni in cui ogni blocco narrativo conduce al successivo attraverso nessi logici. Il meccanismo genera attesa e desta la curiosità rispetto a quello che verrà dopo. E’ come salire su un treno, sapendo che prima o poi quel treno arriverà in stazione e che alla fine del viaggio scopriremo qualcosa di nuovo. Un aneddoto ben raccontato è quello che dall’inizio alla fine spinge l’ascoltatore/spettatore/lettore a porsi delle domande, cui la voce narrante promette, implicitamente, di rispondere.

Nel momento della riflessione si tirano le fila della storia. Bisogna saper dare un senso al tutto, un senso che vada oltre la semplice somma delle parti.

2 – Sulla difficoltà di trovare storie che meritino di essere raccontate e sull’importanza di lasciar perdere la merda

Ci vuole più tempo a scovare una storia decente che a raccontarla e produrla. Nonostante ciò, dobbiamo avere il coraggio di buttare tutto nel cestino quando ci accorgiamo di stringere spazzatura tra le dita. 

[…] it’s time to kill and it’s time to enjoy the killing, because by killing you will make something else even better live […]

3 – Insistere, insistere, insistere ancora, fissare una deadline e volare alto.

Un narratore deve avere buongusto, ma questo non basta, specialmente agli esordi. Anche chi ha tutte le carte in regola per riuscire attraversa periodi di crisi. E’ normale, non sempre può venir fuori il capolavoro, e di certo non al primo tentativo. L’importante è perseverare, produrre una gran mole di lavoro e non rinunciare mai a colmare il gap che intercorre fra la nostra ambizione, le nostre capacità creative e i risultati che otteniamo in concreto.

4 – Gli errori dei principianti

Quando si prende in mano una videocamera o un registratore per la prima volta (Glass si riferisce all’uso in ambito professionale), è facile commettere due tipi di errori:

  • il novellino si sforza di imitare la gente che ascolta alla radio o vede in televisione

SBAGLIATO

Bisogna essere naturali e rimanere se stessi. Solo così risulteremo davvero convincenti.

  • il novellino tende ad escludersi dalla storia nel timore di sembrare troppo autoreferenziale.

SBAGLIATO

E’ proprio l’interazione che suscita il dramma.

Blank on Blank, l’archivio delle interviste perdute

Recuperare vecchi nastri di interviste, soffiar via la polvere che si è depositata nel corso del tempo e farli rivivere in una nuova veste editoriale, che all’audio originale combina musica, caratteri testuali, disegno animato e videoarte. Questa è l’idea alla base di “Blank on Blank”, un interessante progetto di giornalismo multimediale nato grazie alla piattaforma di crowd funding Kickstarter, che ora è diventato anche una serie animata per i “Digital Studios” della PBS, l’emittente televisiva pubblica degli Stati Uniti.

I canali di diffusione di Blank on Blank: da YouTube ai podcast su iTunes, passando per  PRX (media company che distribuisce e revisiona contenuti per il sistema radiofonico pubblico degli Stati Uniti).

I canali di diffusione di Blank on Blank: da YouTube ai podcast su iTunes, passando per PRX (media company che distribuisce e revisiona contenuti per il sistema radiofonico pubblico degli Stati Uniti). Immagine tratta da blackonblack.org

Lo studio “Blank on Blank” è stato fondato da David Gerlach, un giornalista americano che ha lavorato sia per la televisione (“Good Morning America” e MSNBC) che per la stampa (ha iniziato la sua carriera giornalistica scrivendo di politica e cultura per “Newsweek” e “New York Post”). Come si legge nella scheda di presentazione del team creativo pubblicata sul sito, Gerlach ha sempre considerato fondamentale l’apporto fornito dallo strumento giornalistico dell’intervista al racconto della vera storia americana. Da questa consapevolezza è partita l’idea ambiziosa di costruire un archivio delle interviste perdute.

Solitamente ogni giornalista registra le proprie interviste, quali che siano scopo, occasione e destinazione delle stesse. Per poter trascrivere, tagliare, riassumere, verificare, setacciare. Ma soprattutto per difendere la propria professionalità, per non essere accusato di voler travisare il pensiero dell’interlocutore che spesso non si rende conto di ciò che dice, salvo poi smentire tutto quando certe dichiarazioni sconvenienti vengono rese di pubblico dominio.

Quando non servono più, questi documenti sonori finiscono sepolti  in qualche cassetto polveroso o nella memoria di un computer.

“Blank on Blank” li salva dall’oblio, scova nastri inediti, giunti alle orecchie di pochissimi privilegiati, recupera l’audio originale di interviste finora apparse solo in versione cartacea, restituendoci la viva voce dei grandi protagonisti della cultura americana e, con questa, un racconto più intimo, più caldo di quello che si può leggere su un articolo di giornale. Materiale che viene messo a disposizione di tutti, gratis, rientrando nel circuito mediatico sotto forme e attraverso strade diverse: segmenti sonori per la radio pubblica, podcast per iTunes, corti animati per YouTube.

Ma “Blank on Blank” si spinge oltre la già meritoria attività di salvataggio e archiviazione. Grazie al contributo di videoartisti, disegnatori ed esperti di animazione, prova a reinventare il linguaggio giornalistico senza intaccare il contenuto informativo dell’intervista, arricchendolo invece di sfumature semantiche.

Gerlach è convinto che il futuro del giornalismo passi dalla capacità di “mixare” il passato. Certo è che, specie agli albori del giornalismo online, le aziende editoriali hanno usato gli archivi per modulare l’offerta informativa e trovare la via del profitto. Questa strategia non ha prodotto i risultati sperati (tant’è che molti editori hanno scelto di sperimentare il paywall con esiti non sempre felici) e soprattutto non ha inciso sulla forma del prodotto giornalistico. Lo strumento dell’archivio assume tutt’altra rilevanza nel contesto del data journalism, dal momento che l’utilizzo sistematico e scientifico dei database investe direttamente le tecniche professionali dell’indagine giornalistica. Ma ciò che intende Gerlach è ancora altro. Non si tratta solo di recuperare documenti ingialliti, di organizzarli e garantire un facile accesso a dati grezzi e contenuti editoriali. Questo è solo il primo passo. Si tratta di trasformare il linguaggio giornalistico, di cambiare le forme espressive della narrazione. Mixare il passato significa attualizzarlo, moltiplicare gli spazi di fruizione. Vuol dire usare le enormi opportunità offerte dal digitale per immaginare un linguaggio giornalistico ibrido, capace di raccontare storie in modo attraente, senza per questo rinunciare alle regole fondamentali del mestiere che restano quelle di ieri.

Per il momento la serie animata comprende tre episodi: un’intervista a Larry King sulla seduzione, una a Jim Morrison sul bello di essere grassi e quella a D. F. Wallace che ho postato in apertura, realizzata da Leonard Lopate per WNYC. Più consistente è invece l’archivio delle tracce audio che, pur non rientrando nella striscia per la PBS, sono state comunque sottoposte ad un brillante lavoro di editing.

E’ il caso delle due interviste che seguono. Nella prima, condotta da Vanessa Juarez sul set del film “The Wrestler”, Mickey Rourke parla di come sia riuscito a trasformarsi in un perfetto lottatore di wrestling ‒ ruolo che lo ha riportato alla ribalta cinematografica dopo un lungo periodo di declino, e che gli è valso un Golden Globe e una candidatura all’Oscar come migliore attore protagonista ‒ e di come ci si sente a cadere in disgrazia dopo aver assaporato i piaceri del successo. Nella seconda, realizzata da Anthony Bozza per “Rolling Stone”, Bono ricorda gli ultimi giorni di vita del padre.

Questo invece è l’audio completo di un’intervista di Michael Aisner a Mohammed Ali che risale al 1966. “The Greatest” fa il buffone ed è sempre un piacere ascoltarlo, anche se non si capisce una parola di inglese americano; basta abbandonarsi al ritmo del suo eloquio, così simile a quello dettato dalle sue gambe e dai suoi piedi ai fulminei pugni nella danza fra le corde del ring.

Il sito di “Blank on Blank” è una vera miniera d’oro. Ogni traccia sonora è corredata da informazioni su autore, data, luogo, tipologia e supporto di registrazione dell’intervista (in genere microcassette, ma anche minidisc e altri tipi di supporti digitali più recenti). In molti casi si può leggere la trascrizione completa dell’audio, preceduta da informazioni di contesto e dal racconto della fase di preparazione dell’intervista.

Date un’occhiata, ne vale la pena.

Fiamme di Gadda

 Questa sera a Bari, nell’ambito del Bifest 2013 (Bari International Film Festival), sarà presentato il docu-film “Fiamme di Gadda. A spasso con l’ingegnere”, scritto e diretto da Mario Sesti. Il film si avvale delle testimonianze di studiosi e appassionati dell’opera gaddiana, fra i quali spicca lo scrittore e critico teatrale Maurizio Barletta, e della partecipazione di due attori di fama nazionale come Sergio Rubini e Fabrizio Gifuni. Il film sembra mescolare il cinema d’animazione con la recitazione classica, mentre ricorre alle fonti più disparate per dipingere un ritratto fedele di quest’uomo solitario e tormentato: dalle immagini di repertorio ai documenti inediti, dalla lettura di testi originali ai ricordi di chi l’ha conosciuto.

Il trailer promette cose molto interessanti

Nel 2013 ricorrono i 40 anni dalla morte dell’autore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957) e de “La cognizione del dolore” (1963), capolavori che lo hanno proiettato fra i giganti della letteratura italiana del Novecento. Gadda fu scrittore del caos, del disordine, della complessità, e fu scrittore poliedrico, un ingegnere della parola, lui che l’ingegnere lo fece di professione, almeno fino a quando non scelse di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria.

Gadda fu anche giornalista. Nell’ottobre del 1950 venne assunto dalla RAI come praticante ai servizi culturali del giornale radio, per poi passare al Terzo programma, diventando “professionista” nel 1952. L’esperienza alla RAI finì nel giugno 1955, quando Gadda si dimise dall’incarico per affrontare il lavoro di revisione del “Pasticciaccio”, anche se per alcuni anni continuerà a collaborare saltuariamente ai programmi radiofonici.

In quel periodo scrisse anche uno snello manuale dal titolo “Norme per la redazione di un testo radiofonico” (1953), una specie di circolare interna destinata ai colleghi della RAI, che resta uno dei maggiori contributi al dibattito sul rinnovamento (in primo luogo linguistico) della radio sviluppatosi in Italia durante gli anni Cinquanta. Ne approfitto per pubblicarne un estratto, perché il valore dei suggerimenti di Gadda è giunto intatto fino ad oggi, malgrado l’enorme distanza che separa il nostro tempo, il tempo della televisione prima e di internet poi, da quello del monopolio statale sulla radiofonia. Ecco dunque il vademecum del perfetto giornalista radiofonico, che a ben vedere può essere esteso anche a tutti coloro che scrivono per essere letti, a tutti quelli che di scrittura professionale vorrebbero campare.

Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrenza, potrà ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del “discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi” (Carducci) o la bronzea sintassi de “L’opera di Dante” (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la “orazione” è alquanto decaduta nel gusto del pubblico. La “orazione per la morte di Giuseppe Verdi” recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono “per la morte di Arnold Schoenberg”.

Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante.

Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascolatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già stati enunciati dal nome, dalla “firma”. Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio italiana invita ai microfoni i “grandi” e le “grandi”, vale a dire i competenti. All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto “complesso di inferiorità culturale”, cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Questo “complesso” determina una soluzione di continuità tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un “fading” spirituale nella recezione. […]

Seguono 11 regole auree di scrittura radiofonica:

1) Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.

2) Procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate (causali, ipotetiche, temporali, concessive). All’affermazione: “Cesare, avendo accolto gli esploratori i quali gli riferirono circa i movimenti di Ariovisto, decise di affrontarlo”, sostituire: “Cesare accolse gli esploratori. Seppe dei movimenti di Ariovisto e decise di affrontarlo”.

3) Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l’altra le idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone che porgono il biglietto, l’una dopo l’altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un “écoulement”, di una caduta dal contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al “vuoto radiofonico”.

4) Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L’occhio e la mente di chi legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l’orecchio di chi ascolta non reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico. Seguendo nel parlato un’idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a un’altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da pastore azzanna l’una dopo l’altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso, per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.

5) Curare i passaggi di pensiero e i conseguenti passaggi di tono mediante energica scelta di congiunzioni o particelle appropriate, o con opportuna transizione, o con esplicito avviso (omettere l’avviso, la frase di transizione, unicamente allorché il passaggio possa venir affidato alla voce). L’ascoltatore non è profeta e non può prevedere “quando” il discorso muterà, “quando” il dicitore lascerà un’idea, o un seguito d’idee e d’argomenti, per venire ad altro.

6) Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito. “Questa lirica non è malvagia”. “La prosa del Barbetti non è delle più consolanti”.
Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti.
Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei “non”. Ogni “non” della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: “Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo”. Più radiofonico: “Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz’altro accettabile”.

7) Evitare ogni infelice ricorso a poco aggiudicabili pronomi determinativi o disgiuntivi o numerali o indefiniti, a modi qualificanti o indicanti comunque derivati o desunti dal pronome o dal numero: quello-questo, l’uno-l’altro, il primo-il secondo, esso, quegli, chi, ognuno, il quale, qualsivoglia d’essi, egli, ella, quest’ultimo. Deve apparir chiaro in su le prime a quali termini di una serie enunciata i detti pronomi si riferiscono. In caso contrario è meglio ripetere il termine, cioè il nome. Dopo aver elaborato una struttura sintattica risplendente di quattordici sostantivi singolari maschili uno via l’altro, il riattaccarsi con un “quello” o un “esso” all’uno dei quattordici (a quale?) induce l’ascoltatore in uno stato di tragica perplessità circa l’attribuzione del disperso trovatello (esso, quello) all’uno piuttosto che all’altro dei nomi proferiti. Evitare, possibilmente, di mettere in cantiere una frase come questa: “Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell’insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio (tanto nel fertile piano che sul colle amenissimo) del piccolo ducato e del congiunto priorato, protetti entrambi contro il tentato sopruso dell’esercito di Conestabile e contro il sistematico assedio del reggimento di Catalogna dall’impeto stagionale dell’affluente del Rodano, e sovrastati a tergo dal nero massiccio del Courtadet, già ricetto di un antico raduno conventuale ed ora di un pauroso brigantaggio: quello non meno sciagurato di questo”. Dove “quello” può riferirsi a: veleno del dubbio, vecchio tempo, insicuro pensiero, popolano di borgo, fertile piano, piccolo ducato, sopruso dell’esercito del Conestabile, impeto dell’affluente del Rodano, antico raduno conventuale.

8) Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l’affermazione più pregna di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d’una rima il testo che ne andasse eventualmente adorno.

9) Evitare le allitterazioni involontarie, sia le vocaliche sia le consonantiche, o comunque la ripetizione continuata di un medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla, moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (pàpera). Ciò che è peggio interrompono l’ascolto con deitratti non comprensibili, e non compresi di fatto. All’udire, talvolta, certe frasi di romanza, non si percepisce il significato dei vocaboli, che escono frantumati dalla gola di chi canta: il motivo musicale, ossia l’aria, appoggiato sugli “are” e sugli “ore” di un poetico nonsense, ci avvince con la sua mélode, esaudisce da solo la nostra sete di bellezza.
Ma il parlato radiofonico non è pretesto o supporto a una frase musicale; deve essere compreso per se stesso; il suo valore deriva unicamente dal contenuto logico. Un esempio di allitterazione vocalica: i versi danteschi:

Suso in Itàlia bella, giàce un làco
E quella a cui il Sàvio bàgna il fiànco

orchestrati in a sulle sedi toniche, risultano difficilmente comprensibili all’apparecchio: si risolvono in una irruzione di a nella tromba timpanica dell’ascoltatore frastornato; irruzione a cui non corrisponde, per cause meramente fisiche, un adeguato fissaggio di immagini.

10) Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.

11) Evitare le forme poco usate e però “meravigliose” della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.

Passi d’autore #4: Ernest Hemingway

 Quella sera i messicani suonarono la fisarmonica e altri strumenti nel reparto dell’ospedale e ci fu molta allegria e le sale echeggiarono del rumore delle inspirazioni e delle espirazioni della fisarmonica, e dei piatti e dei campanacci, mentre il tamburo marciava lungo il corridoio. In quel reparto c’era un cavallerizzo da rodeo che un pomeriggio caldo e polveroso era uscito dalle gabbie di Midnight sotto gli occhi della folla e che ora, con la schiena rotta, voleva imparare a lavorare il cuoio e a impagliare sedie quando si fosse abbastanza rimesso per lasciare l’ospedale. C’era un carpentiere che era caduto con tutta l’impalcatura e si era rotto i polsi e le caviglie. Era atterrato come un gatto, ma senza l’elasticità del gatto. Potevano aggiustarlo in modo tale da permettergli di tornare al suo lavoro, ma ci sarebbe voluto molto tempo. C’era un ragazzo di una fattoria, di circa sedici anni, con una gamba rotta che gli avevano ingessato male e che doveva essere rotta un’altra volta. C’era Cayetano Ruiz, un giocatore di provincia con una gamba paralizzata. In fondo al corridoio il signor Frazer li sentiva ridere e scherzare, tutti quanti, della musica fatta dai messicani che erano stati mandati dalla polizia. I messicani se la stavano spassando. Entrarono nella stanza, eccitatissimi, per vedere il signor Frazer, e volevano sapere se c’era qualcosa che voleva che gli suonassero, e vennero altre due volte, a suonare, la sera, di loro spontanea volontà.

L’ultima volta che suonarono, il signor Frazer restò a letto nella sua stanza con la porta aperta e ascoltò quella musica chiassosa e discordante e non poté fare a meno di riflettere. Quando vollero sapere che cosa desiderava che suonassero, il signor Frazer chiese la Cucaracha, che ha tutta la sinistra e incalzante leggerezza di tante delle ariette alle note delle quali gli uomini sono andati a morire. La suonarono rumorosamente e con emozione. Il motivo era migliore di quasi tutti i motivi di questo genere, a parere del signor Frazer, ma l’effetto era lo stesso.

A onta di questo sfoggio di emozione, il signor Frazer continuò a riflettere. Di solito evitava il più possibile di farlo, tranne quando scriveva, ma ora stava pensando ai tre messicani che suonavano e a quello che aveva detto il piccolino.

La religione è l’oppio del popolo. Ci credeva, quel piccolo oste dispeptico. Sì, e la musica è l’oppio del popolo. Mica ci aveva pensato, il vecchio “mi dà alla testa”. E ora l’economia è l’oppio del popolo; insieme al patriottismo, che è l’oppio del popolo in Italia e in Germania. E i rapporti sessuali? Erano un oppio del popolo? Di qualcuno in mezzo al popolo. Di qualcuno dei migliori in mezzo al popolo. Ma il bere era un sovrano oppio del popolo, oh, un oppio straordinario. Anche se qualcuno preferisce la radio, altro oppio del popolo, roba a buon mercato che aveva appena usato anche lui. Insieme a tutto questo c’era il gioco, oppio del popolo quant’altri mai, uno dei più antichi. L’ambizione era un altro, un oppio del popolo, insieme alla fede in ogni nuova forma di governo. Quello che ci voleva era un minimo di governo, sempre meno, meno governo. La libertà, quello in cui credevamo noi , era adesso la testata di una pubblicazione di MacFadden. Noi credevamo nella libertà, anche se non le avevano trovato ancora un nome nuovo. Ma qual era quello vero? Qual era il vero, reale oppio del popolo? Il signor Frazer lo sapeva benissimo. Cos’era? Certo: il pane era l’oppio del popolo. Se lo sarebbe ricordato, e avrebbe avuto un senso, alla luce del giorno? Il pane è l’oppio del popolo.

<<Senta>> disse il signor Frazer all’infermiera quando arrivò. <<Faccia entrare quel messicano magro, eh, per favore?>>

<<Le piace?>> disse il messicano sulla porta.

<<Moltissimo>>

<<È una canzone storica>> disse il messicano. <<È l’inno della vera rivoluzione.>>

<<Senta>> disse il signor Frazer. <<Perché si dovrebbe operare la gente senza anestesia?>>

<<Non capisco.>>

<<Perché non tutti gli oppi del popolo sono buoni? Cosa vuole farne, lei, del popolo?>>

<<Il popolo dovrebbe essere salvato dall’ignoranza.>>

<<Non dica sciocchezze. L’istruzione è l’oppio del popolo. Dovrebbe saperlo. Ne ha avuta un po’.>>

<<Lei non crede nell’istruzione?>>

<<No>> disse il signor Frazer. <<Nella conoscenza, sì>>

<<Non la seguo>>

<<Molte volte io stesso non mi seguo con piacere.>>

<<Vuol sentire un’altra volta la Cucaracha?>> chiese, preoccupato, il messicano.

<<Sì>> disse il signor Frazer. <<Suonate un’altra volta la Cucaracha. È meglio della radio.>>

La rivoluzione, pensava il signor Frazer, non è oppio. La rivoluzione è una catarsi; un’estasi che può essere prolungata solo dalla tirannia. Gli oppi sono per prima e per dopo. Pensava bene, un po’ troppo bene.

Tra poco ormai se ne sarebbero andati, pensava, e avrebbero portato via con sé la Cucaracha. Allora lui avrebbe bevuto un goccetto dell’ammazzagiganti e avrebbe acceso la radio, la si poteva tenere accesa in modo da sentirla appena.

(Da Il giocatore, la monaca e la radio, “I quarantanove racconti”, 1938. Traduzione di Vincenzo Mantovani)