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La caduta degli dei

 Mi sa tanto che ieri pomeriggio è tramontata un’epoca, quella di Sua Maestà Roger Federer. In verità sono anni che non gioca ai massimi livelli, che nel suo caso sono livelli stratosferici, ma finora, come per magia, sulla sacra erba di Londra lo svizzero aveva sempre ritrovato lo smalto dei tempi migliori, quando era invincibile, Achille piè veloce, e si muoveva lungo il campo con la grazia di Baryšnikov, quando faceva tutto con estrema facilità e naturalezza e ogni colpo scoccava dalla racchetta come un dardo divino, quando il suo tennis sembrava infuso di una purezza ultraterrena e tutti gli altri apparivano come goffi praticanti, piccoli piccoli al suo cospetto.

Wimbledon è casa sua, anzi, il suo regno, e una sconfitta in 4 set al secondo turno, sul Centre Court, per mano del n. 116 del ranking, somiglia molto a un regicidio. Federer non ha giocato da schifo come mi è capitato di leggere in giro, gli ho visto fare di peggio. Certo, nulla a che vedere con l’alieno di una volta: troppo timido nei momenti decisivi della partita e una quantità assurda (per lui) di stecche. Però il punteggio finale ci dice che ha perso due set allo spareggio e l’altro 7-5, concedendo due break all’avversario, di cui uno subito “controbreccato” . Nel terzo set non ha sfruttato l’unica opportunità di strappare il servizio a Stakhovsky, e se nel quarto fosse entrato quel passante sul set point, forse le cose sarebbero finite in modo diverso. Ma l’ucraino ha coperto bene la rete e il passante non è entrato. E comunque, anche nel bel mezzo della tragedia, Federer è stato capace di illuminare il Centrale con lampi di assoluta meraviglia, come uno smash di rovescio ad incrociare da metà campo, spedito morbidamente sulla riga con un angolo strettissimo, appena oltre la rete, dentro l’area di servizio.

Era da 36 slam che non perdeva prima dei quarti. Niente dura in eterno, nemmeno Roger Federer. In passato ha già attraversato periodi di crisi, ma allora c’era tutto il tempo di riprendersi, aveva l’età dalla sua parte. Invece questo sembra essere definitivo. L’ora dello svizzero è suonata, e se non è il gong che chiude l’incontro, è almeno quello che segna l’inizio dell’ultimo round. Forse avrà ancora modo di vincere qualcos’altro.

Per il momento, quello in corso di svolgimento è il Wimbledon degli infortuni e delle grandi sorprese: fuori Federer, fuori Nadal, fuori Tsonga; fuori Sharapova e Azarenka nel torneo femminile. Djokovic si starà fregando le mani e probabilmente a Murray già tremano i polsi, perché questa potrebbe essere la volta buona che un britannico torni a vincere Wimbledon dopo 77 anni di attesa (l’ultimo è stato Fred Perry, nel 1936). Auguroni, Murray.

Chiudo il post con un video tributo che l’ATP ha pubblicato su YouTube per i dieci anni dal primo trionfo di Federer in quel di Londra. Al video seguono le parole di David Foster Wallace, che avevo messo da parte nella speranza di servirmene per celebrare l’ennesimo record del Campione, il più grande di tutti, l’ottavo Wimbledon in carriera. E invece sono finite dentro una specie di necrologio.

Ci sono tre spiegazioni valide per l’ascesa di Federer. La prima ha a che vedere con il mistero e la metafisica ed è, a mio avviso, la più vicina alla verità. Le altre sono più tecniche e funzionano meglio come giornalismo. La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari atleti preternaturali che sembrano dispensati, almeno in parte, da certe leggi della fisica. Di questa categoria fanno parte Michael Jordan, che non solo saltava ad altezze disumane ma riusciva anche a rimanervi sospeso per una o due battute in più di quanto consenta la gravità, e Muhammad Ali, che letteralmente «fluttuava» sul ring e nel lasso di tempo necessario ad assestare un jab riusciva a piazzarne il triplo. Ci sono probabilmente una mezza dozzina di altri esempi che si potrebbero portare dal 1960 a oggi. E Federer è di questa specie – una specie che si potrebbe definire dei geni, o mutanti, o avatar. Non è mai in affanno o sbilanciato. La palla in avvicinamento resta sospesa in aria, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe. I suoi movimenti sono sciolti invece che possenti. Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, Federer sembra al contempo meno e più solido dei suoi avversari. Soprattutto nella tenuta rigorosamente bianca che Wimbledon, non senza una certa compiaciuta soddisfazione, riesce ancora a imporre, Federer sembra ciò che in effetti potrebbe (a mio avviso) essere: una creatura dal corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce. Quanto alla palla che collabora e resta sospesa, rallentando la corsa, come influenzata dalla volontà dello svizzero, qui c’è un’autentica verità metafisica. Come nell’aneddoto seguente. Dopo la semifinale del 7 luglio, durante la quale Federer aveva distrutto Jonas Björkman – non battuto, distrutto – e appena prima della conferenza stampa, dove Björkman, che è amico di Federer, avrebbe detto di ritenersi fortunato ad «aver avuto il posto migliore dello stadio» per vedere lo svizzero «giocare quanto più vicino alla perfezione sia possibile», Federer e Björkman ridono e scherzano, e Björkman gli chiede quanto più grande del normale era oggi per lui la pallina, al che Federer gli risponde che era «come una palla da bowling, o da basket».

(da Roger Federer come esperienza religiosa, di David Foster Wallace, Edizioni Casagrande, 2010. Traduzione di Matteo Campagnoli. Qui l’articolo originale di Wallace pubblicato dal New York Times)

Se non sbaglio, questa edizione del libro è fuori commercio. In ogni caso, potete trovare il saggio su Federer in Il tennis come esperienza religiosa (Einaudi Stile libero Big, 2012) che ne contiene un altro, sempre di Wallace, dal titolo Democrazia e commercio agli US Open.

Blank on Blank, l’archivio delle interviste perdute

Recuperare vecchi nastri di interviste, soffiar via la polvere che si è depositata nel corso del tempo e farli rivivere in una nuova veste editoriale, che all’audio originale combina musica, caratteri testuali, disegno animato e videoarte. Questa è l’idea alla base di “Blank on Blank”, un interessante progetto di giornalismo multimediale nato grazie alla piattaforma di crowd funding Kickstarter, che ora è diventato anche una serie animata per i “Digital Studios” della PBS, l’emittente televisiva pubblica degli Stati Uniti.

I canali di diffusione di Blank on Blank: da YouTube ai podcast su iTunes, passando per  PRX (media company che distribuisce e revisiona contenuti per il sistema radiofonico pubblico degli Stati Uniti).

I canali di diffusione di Blank on Blank: da YouTube ai podcast su iTunes, passando per PRX (media company che distribuisce e revisiona contenuti per il sistema radiofonico pubblico degli Stati Uniti). Immagine tratta da blackonblack.org

Lo studio “Blank on Blank” è stato fondato da David Gerlach, un giornalista americano che ha lavorato sia per la televisione (“Good Morning America” e MSNBC) che per la stampa (ha iniziato la sua carriera giornalistica scrivendo di politica e cultura per “Newsweek” e “New York Post”). Come si legge nella scheda di presentazione del team creativo pubblicata sul sito, Gerlach ha sempre considerato fondamentale l’apporto fornito dallo strumento giornalistico dell’intervista al racconto della vera storia americana. Da questa consapevolezza è partita l’idea ambiziosa di costruire un archivio delle interviste perdute.

Solitamente ogni giornalista registra le proprie interviste, quali che siano scopo, occasione e destinazione delle stesse. Per poter trascrivere, tagliare, riassumere, verificare, setacciare. Ma soprattutto per difendere la propria professionalità, per non essere accusato di voler travisare il pensiero dell’interlocutore che spesso non si rende conto di ciò che dice, salvo poi smentire tutto quando certe dichiarazioni sconvenienti vengono rese di pubblico dominio.

Quando non servono più, questi documenti sonori finiscono sepolti  in qualche cassetto polveroso o nella memoria di un computer.

“Blank on Blank” li salva dall’oblio, scova nastri inediti, giunti alle orecchie di pochissimi privilegiati, recupera l’audio originale di interviste finora apparse solo in versione cartacea, restituendoci la viva voce dei grandi protagonisti della cultura americana e, con questa, un racconto più intimo, più caldo di quello che si può leggere su un articolo di giornale. Materiale che viene messo a disposizione di tutti, gratis, rientrando nel circuito mediatico sotto forme e attraverso strade diverse: segmenti sonori per la radio pubblica, podcast per iTunes, corti animati per YouTube.

Ma “Blank on Blank” si spinge oltre la già meritoria attività di salvataggio e archiviazione. Grazie al contributo di videoartisti, disegnatori ed esperti di animazione, prova a reinventare il linguaggio giornalistico senza intaccare il contenuto informativo dell’intervista, arricchendolo invece di sfumature semantiche.

Gerlach è convinto che il futuro del giornalismo passi dalla capacità di “mixare” il passato. Certo è che, specie agli albori del giornalismo online, le aziende editoriali hanno usato gli archivi per modulare l’offerta informativa e trovare la via del profitto. Questa strategia non ha prodotto i risultati sperati (tant’è che molti editori hanno scelto di sperimentare il paywall con esiti non sempre felici) e soprattutto non ha inciso sulla forma del prodotto giornalistico. Lo strumento dell’archivio assume tutt’altra rilevanza nel contesto del data journalism, dal momento che l’utilizzo sistematico e scientifico dei database investe direttamente le tecniche professionali dell’indagine giornalistica. Ma ciò che intende Gerlach è ancora altro. Non si tratta solo di recuperare documenti ingialliti, di organizzarli e garantire un facile accesso a dati grezzi e contenuti editoriali. Questo è solo il primo passo. Si tratta di trasformare il linguaggio giornalistico, di cambiare le forme espressive della narrazione. Mixare il passato significa attualizzarlo, moltiplicare gli spazi di fruizione. Vuol dire usare le enormi opportunità offerte dal digitale per immaginare un linguaggio giornalistico ibrido, capace di raccontare storie in modo attraente, senza per questo rinunciare alle regole fondamentali del mestiere che restano quelle di ieri.

Per il momento la serie animata comprende tre episodi: un’intervista a Larry King sulla seduzione, una a Jim Morrison sul bello di essere grassi e quella a D. F. Wallace che ho postato in apertura, realizzata da Leonard Lopate per WNYC. Più consistente è invece l’archivio delle tracce audio che, pur non rientrando nella striscia per la PBS, sono state comunque sottoposte ad un brillante lavoro di editing.

E’ il caso delle due interviste che seguono. Nella prima, condotta da Vanessa Juarez sul set del film “The Wrestler”, Mickey Rourke parla di come sia riuscito a trasformarsi in un perfetto lottatore di wrestling ‒ ruolo che lo ha riportato alla ribalta cinematografica dopo un lungo periodo di declino, e che gli è valso un Golden Globe e una candidatura all’Oscar come migliore attore protagonista ‒ e di come ci si sente a cadere in disgrazia dopo aver assaporato i piaceri del successo. Nella seconda, realizzata da Anthony Bozza per “Rolling Stone”, Bono ricorda gli ultimi giorni di vita del padre.

Questo invece è l’audio completo di un’intervista di Michael Aisner a Mohammed Ali che risale al 1966. “The Greatest” fa il buffone ed è sempre un piacere ascoltarlo, anche se non si capisce una parola di inglese americano; basta abbandonarsi al ritmo del suo eloquio, così simile a quello dettato dalle sue gambe e dai suoi piedi ai fulminei pugni nella danza fra le corde del ring.

Il sito di “Blank on Blank” è una vera miniera d’oro. Ogni traccia sonora è corredata da informazioni su autore, data, luogo, tipologia e supporto di registrazione dell’intervista (in genere microcassette, ma anche minidisc e altri tipi di supporti digitali più recenti). In molti casi si può leggere la trascrizione completa dell’audio, preceduta da informazioni di contesto e dal racconto della fase di preparazione dell’intervista.

Date un’occhiata, ne vale la pena.