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Il cantastorie secondo Ira Glass

 Vi giro un post che ho letto sul blog del Center for Digital Storytelling, post che l’autrice Allison Myers ha ripreso a sua volta da Aerogramme Writers’ Studio.

Il tema è quello della narrazione, in generale, e della narrazione radiofonica e televisiva, in particolare. Quel geniaccio di Ira Glass – voce storica della radio pubblica americana, ideatore (insieme a Torey Malatia), conduttore e produttore esecutivo di “This American Life” – ci parla in una serie di quattro video di come si costruisce una buona storia per la radio o la tv.

Provo a riassumere il succo del discorso.

1 – Partiamo dalle basi

Due sono gli elementi fondamentali di un buon racconto (Glass li chiama building blocks): l’aneddoto e il momento della riflessione. L’aneddoto è la storia nella sua forma più pura; grazie alla sua potenza anche la trama più noiosa può diventare interessante. L’aneddoto è una sequenza di eventi o di azioni in cui ogni blocco narrativo conduce al successivo attraverso nessi logici. Il meccanismo genera attesa e desta la curiosità rispetto a quello che verrà dopo. E’ come salire su un treno, sapendo che prima o poi quel treno arriverà in stazione e che alla fine del viaggio scopriremo qualcosa di nuovo. Un aneddoto ben raccontato è quello che dall’inizio alla fine spinge l’ascoltatore/spettatore/lettore a porsi delle domande, cui la voce narrante promette, implicitamente, di rispondere.

Nel momento della riflessione si tirano le fila della storia. Bisogna saper dare un senso al tutto, un senso che vada oltre la semplice somma delle parti.

2 – Sulla difficoltà di trovare storie che meritino di essere raccontate e sull’importanza di lasciar perdere la merda

Ci vuole più tempo a scovare una storia decente che a raccontarla e produrla. Nonostante ciò, dobbiamo avere il coraggio di buttare tutto nel cestino quando ci accorgiamo di stringere spazzatura tra le dita. 

[…] it’s time to kill and it’s time to enjoy the killing, because by killing you will make something else even better live […]

3 – Insistere, insistere, insistere ancora, fissare una deadline e volare alto.

Un narratore deve avere buongusto, ma questo non basta, specialmente agli esordi. Anche chi ha tutte le carte in regola per riuscire attraversa periodi di crisi. E’ normale, non sempre può venir fuori il capolavoro, e di certo non al primo tentativo. L’importante è perseverare, produrre una gran mole di lavoro e non rinunciare mai a colmare il gap che intercorre fra la nostra ambizione, le nostre capacità creative e i risultati che otteniamo in concreto.

4 – Gli errori dei principianti

Quando si prende in mano una videocamera o un registratore per la prima volta (Glass si riferisce all’uso in ambito professionale), è facile commettere due tipi di errori:

  • il novellino si sforza di imitare la gente che ascolta alla radio o vede in televisione

SBAGLIATO

Bisogna essere naturali e rimanere se stessi. Solo così risulteremo davvero convincenti.

  • il novellino tende ad escludersi dalla storia nel timore di sembrare troppo autoreferenziale.

SBAGLIATO

E’ proprio l’interazione che suscita il dramma.

Passi d’autore #4: Ernest Hemingway

 Quella sera i messicani suonarono la fisarmonica e altri strumenti nel reparto dell’ospedale e ci fu molta allegria e le sale echeggiarono del rumore delle inspirazioni e delle espirazioni della fisarmonica, e dei piatti e dei campanacci, mentre il tamburo marciava lungo il corridoio. In quel reparto c’era un cavallerizzo da rodeo che un pomeriggio caldo e polveroso era uscito dalle gabbie di Midnight sotto gli occhi della folla e che ora, con la schiena rotta, voleva imparare a lavorare il cuoio e a impagliare sedie quando si fosse abbastanza rimesso per lasciare l’ospedale. C’era un carpentiere che era caduto con tutta l’impalcatura e si era rotto i polsi e le caviglie. Era atterrato come un gatto, ma senza l’elasticità del gatto. Potevano aggiustarlo in modo tale da permettergli di tornare al suo lavoro, ma ci sarebbe voluto molto tempo. C’era un ragazzo di una fattoria, di circa sedici anni, con una gamba rotta che gli avevano ingessato male e che doveva essere rotta un’altra volta. C’era Cayetano Ruiz, un giocatore di provincia con una gamba paralizzata. In fondo al corridoio il signor Frazer li sentiva ridere e scherzare, tutti quanti, della musica fatta dai messicani che erano stati mandati dalla polizia. I messicani se la stavano spassando. Entrarono nella stanza, eccitatissimi, per vedere il signor Frazer, e volevano sapere se c’era qualcosa che voleva che gli suonassero, e vennero altre due volte, a suonare, la sera, di loro spontanea volontà.

L’ultima volta che suonarono, il signor Frazer restò a letto nella sua stanza con la porta aperta e ascoltò quella musica chiassosa e discordante e non poté fare a meno di riflettere. Quando vollero sapere che cosa desiderava che suonassero, il signor Frazer chiese la Cucaracha, che ha tutta la sinistra e incalzante leggerezza di tante delle ariette alle note delle quali gli uomini sono andati a morire. La suonarono rumorosamente e con emozione. Il motivo era migliore di quasi tutti i motivi di questo genere, a parere del signor Frazer, ma l’effetto era lo stesso.

A onta di questo sfoggio di emozione, il signor Frazer continuò a riflettere. Di solito evitava il più possibile di farlo, tranne quando scriveva, ma ora stava pensando ai tre messicani che suonavano e a quello che aveva detto il piccolino.

La religione è l’oppio del popolo. Ci credeva, quel piccolo oste dispeptico. Sì, e la musica è l’oppio del popolo. Mica ci aveva pensato, il vecchio “mi dà alla testa”. E ora l’economia è l’oppio del popolo; insieme al patriottismo, che è l’oppio del popolo in Italia e in Germania. E i rapporti sessuali? Erano un oppio del popolo? Di qualcuno in mezzo al popolo. Di qualcuno dei migliori in mezzo al popolo. Ma il bere era un sovrano oppio del popolo, oh, un oppio straordinario. Anche se qualcuno preferisce la radio, altro oppio del popolo, roba a buon mercato che aveva appena usato anche lui. Insieme a tutto questo c’era il gioco, oppio del popolo quant’altri mai, uno dei più antichi. L’ambizione era un altro, un oppio del popolo, insieme alla fede in ogni nuova forma di governo. Quello che ci voleva era un minimo di governo, sempre meno, meno governo. La libertà, quello in cui credevamo noi , era adesso la testata di una pubblicazione di MacFadden. Noi credevamo nella libertà, anche se non le avevano trovato ancora un nome nuovo. Ma qual era quello vero? Qual era il vero, reale oppio del popolo? Il signor Frazer lo sapeva benissimo. Cos’era? Certo: il pane era l’oppio del popolo. Se lo sarebbe ricordato, e avrebbe avuto un senso, alla luce del giorno? Il pane è l’oppio del popolo.

<<Senta>> disse il signor Frazer all’infermiera quando arrivò. <<Faccia entrare quel messicano magro, eh, per favore?>>

<<Le piace?>> disse il messicano sulla porta.

<<Moltissimo>>

<<È una canzone storica>> disse il messicano. <<È l’inno della vera rivoluzione.>>

<<Senta>> disse il signor Frazer. <<Perché si dovrebbe operare la gente senza anestesia?>>

<<Non capisco.>>

<<Perché non tutti gli oppi del popolo sono buoni? Cosa vuole farne, lei, del popolo?>>

<<Il popolo dovrebbe essere salvato dall’ignoranza.>>

<<Non dica sciocchezze. L’istruzione è l’oppio del popolo. Dovrebbe saperlo. Ne ha avuta un po’.>>

<<Lei non crede nell’istruzione?>>

<<No>> disse il signor Frazer. <<Nella conoscenza, sì>>

<<Non la seguo>>

<<Molte volte io stesso non mi seguo con piacere.>>

<<Vuol sentire un’altra volta la Cucaracha?>> chiese, preoccupato, il messicano.

<<Sì>> disse il signor Frazer. <<Suonate un’altra volta la Cucaracha. È meglio della radio.>>

La rivoluzione, pensava il signor Frazer, non è oppio. La rivoluzione è una catarsi; un’estasi che può essere prolungata solo dalla tirannia. Gli oppi sono per prima e per dopo. Pensava bene, un po’ troppo bene.

Tra poco ormai se ne sarebbero andati, pensava, e avrebbero portato via con sé la Cucaracha. Allora lui avrebbe bevuto un goccetto dell’ammazzagiganti e avrebbe acceso la radio, la si poteva tenere accesa in modo da sentirla appena.

(Da Il giocatore, la monaca e la radio, “I quarantanove racconti”, 1938. Traduzione di Vincenzo Mantovani)   

Passi d’autore #2: Jean-Paul Sartre

Ecco che cosa ho pensato: affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura  è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. È questo che trae in inganno la gente: un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse. Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare. Per esempio quando ero ad Amburgo con quell’Erna di cui non mi fidavo e che aveva paura di me, menavo un’esistenza strana. Ma c’ero dentro, e non ci pensavo. Poi, una sera, in un piccolo caffè di San Pauli, ella mi lasciò per andare al lavabo, ed io rimasi solo. C’era un fonografo che suonava Blue Sky. Mi misi a raccontarmi quello ch’era avvenuto al mio sbarco. Mi dissi: << La terza sera, mentre entravo in un dancing chiamato la Grotta Azzurra, ho notato un pezzo di donna mezzo ubriaca. E quella donna è quella che attendo in questo momento, mentre ascolto Blue Sky, e che sta per tornare a sedersi alla mia destra e a circondarmi il collo con le sue braccia >>. Allora ho sentito acutamente che avevo un’avventura. Ma Erna è tornata, mi si è seduta accanto, m’ha circondato il collo con le braccia ed io l’ho detestata, senza saper bene perché. Lo capisco ora: bisognava ricominciare a vivere e l’impressione dell’avventura era svanita.

Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo né coda, è un’addizione interminabile e monotona. Di tanto in tanto si fa un totale parziale: si dice: ecco, sono tre anni che viaggio, tre anni che sono a Bouville. E nemmeno vi è una fine, non si lascia mai una donna, un amico, una città tutto in una volta. E poi tutto si assomiglia: Sciangai, Mosca, Algeri, in capo ad una quindicina è tutto uguale. Una volta ogni tanto – raramente – si fa il punto, ci si accorge che ci si è appiccicati ad una donna, impelagati in una sporca faccenda. La durata d’un lampo. Poi la sfilata ricomincia, ci si rimette a fare l’addizione delle ore e dei giorni. Lunedì, martedì, mercoledì. Aprile, maggio, giugno. 1924, 1925, 1926.

Vivere è questo. Ma quando si racconta la vita, tutto cambia. Soltanto ch’è un cambiamento che nessuno rileva: la prova ne è che si parla di storie vere. Come se potessero esservi storie vere; gli avvenimenti si verificano in un senso e noi li raccontiamo in senso inverso. Sembra che si cominci dal principio: << Era una bella serata dell’autunno 1922. Io ero scrivano di un notaio a Marommes >>. E in realtà si è cominciato dalla fine. La fine è lì, invisibile e presente, ed è essa che dà a queste poche parole l’enfasi e il valore d’un inizio: << Passeggiavo, ero uscito dal villaggio senza accorgermene, pensavo ai miei imbarazzi finanziari >>. Questa frase, presa semplicemente per quello che è, vuol dire che questo tale era assorto, afflitto, a mille miglia da un’avventura, precisamente in quel particolare stato d’animo nel quale si lasciano passare gli avvenimenti senza vederli. Ma la fine è lì presente a trasformare tutto. Per noi questo tipo è già l’eroe della storia. La sua tetraggine, i suoi imbarazzi finanziari sono ben più preziosi dei nostri, sono tutti indorati dalla luce delle passioni future. Ed il racconto prosegue a ritroso: gli istanti hanno cessato di ammucchiarsi a casaccio gli uni sopra gli altri, sono ghermiti dalla fine della storia che li attira, e ciascuno di essi attira a sua volta l’istante che lo precede: << Annottava, la strada era deserta >>. La frase è gettata là, negligentemente, ha un’apparenza superflua, ma noi non ci lasciamo ingannare e la mettiamo da parte: è un’informazione di cui comprenderemo il valore in seguito. Ed abbiamo la sensazione che l’eroe ha vissuto tutti i particolari di questa notte come presagi, come promesse, o anche ch’egli abbia vissuto soltanto quelli che erano promesse, cieco e sordo per tutto ciò che non annunciava l’avventura. Dimentichiamo che l’avvenire non c’era ancora; quel tale passeggiava in una notte senza presagi, che gli offriva alla rinfusa le sue ricchezze monotone, ed egli non sceglieva.

Avrei voluto che i momenti della mia vita si susseguissero e s’ordinassero come quelli d’una vita che si rievoca. Sarebbe come tentar d’acchiappare il tempo per la coda.

(da La nausea, 1938. Traduzione di Bruno Fonzi)