Archivi tag: scrittura

I dolori del giovane blogger

Alcune volte non hai il tempo di scrivere, altre manca la voglia. Quand’è così, i giorni passano e il tuo blog si inceppa su una certa data ad una certa ora, come quell’orologio fermo appeso in cucina che da un mese aspetta invano che gli cambi le pile.

Alcune volte torni a casa nel tardo pomeriggio con tanta voglia di scrivere ma non sai cosa scrivere, ti mancano le idee. Quand’è così, non scrivi (questa è sempre la scelta migliore, secondo me), oppure scrivi male un post insulso, oppure scrivi del fatto che non sai cosa scrivere.

Altre volte ti capita l’opposto, hai così tante idee che alla fine il cervello non riesce a gestirle tutte e il traffico dei pensieri si ingolfa. Sai perfettamente cosa scrivere, hai in mente un post magnifico, originale, pieno di rimandi e connessioni, nella tua testa è già bello che pronto, devi solo batterlo alla tastiera del pc e non vedi l’ora di pubblicarlo, ma poi quando ti siedi a scriverlo davvero ti rendi conto che quel post dovrai sudartelo, che ti serviranno molta più fatica, tempo e concentrazione del previsto prima di riuscire a far coincidere la meraviglia immaginata con quello che hai effettivamente composto tramite l’editor di WordPress. A quel punto il cervello comincia ad inviare segnali inequivocabili, ad elaborare strategie di fuga: ti alzi, cammini nervosamente attraverso la stanza, ne misuri il perimetro, ti risiedi, sfogli a casaccio il primo libro a portata di mano, controlli la posta elettronica, fai impazzire la freccetta del mouse sullo schermo immacolato, in attesa dell’ispirazione, ti rialzi di nuovo per andare a fumare una sigaretta in balcone. Poi magari ti accorgi che fuori splende ancora il sole, oppure un amico viene a citofonarti sotto casa e decidi di uscire per una passeggiata. E addio post.

Altre volte è settembre, e i coscienziosi padri di famiglia iniziano a far provvista di legna in vista dell’inverno. Il tuo vicino con aspirazioni da boscaiolo aziona la motosega da 6 kW in giardino e la questione è chiusa.

Il cantastorie secondo Ira Glass

 Vi giro un post che ho letto sul blog del Center for Digital Storytelling, post che l’autrice Allison Myers ha ripreso a sua volta da Aerogramme Writers’ Studio.

Il tema è quello della narrazione, in generale, e della narrazione radiofonica e televisiva, in particolare. Quel geniaccio di Ira Glass – voce storica della radio pubblica americana, ideatore (insieme a Torey Malatia), conduttore e produttore esecutivo di “This American Life” – ci parla in una serie di quattro video di come si costruisce una buona storia per la radio o la tv.

Provo a riassumere il succo del discorso.

1 – Partiamo dalle basi

Due sono gli elementi fondamentali di un buon racconto (Glass li chiama building blocks): l’aneddoto e il momento della riflessione. L’aneddoto è la storia nella sua forma più pura; grazie alla sua potenza anche la trama più noiosa può diventare interessante. L’aneddoto è una sequenza di eventi o di azioni in cui ogni blocco narrativo conduce al successivo attraverso nessi logici. Il meccanismo genera attesa e desta la curiosità rispetto a quello che verrà dopo. E’ come salire su un treno, sapendo che prima o poi quel treno arriverà in stazione e che alla fine del viaggio scopriremo qualcosa di nuovo. Un aneddoto ben raccontato è quello che dall’inizio alla fine spinge l’ascoltatore/spettatore/lettore a porsi delle domande, cui la voce narrante promette, implicitamente, di rispondere.

Nel momento della riflessione si tirano le fila della storia. Bisogna saper dare un senso al tutto, un senso che vada oltre la semplice somma delle parti.

2 – Sulla difficoltà di trovare storie che meritino di essere raccontate e sull’importanza di lasciar perdere la merda

Ci vuole più tempo a scovare una storia decente che a raccontarla e produrla. Nonostante ciò, dobbiamo avere il coraggio di buttare tutto nel cestino quando ci accorgiamo di stringere spazzatura tra le dita. 

[…] it’s time to kill and it’s time to enjoy the killing, because by killing you will make something else even better live […]

3 – Insistere, insistere, insistere ancora, fissare una deadline e volare alto.

Un narratore deve avere buongusto, ma questo non basta, specialmente agli esordi. Anche chi ha tutte le carte in regola per riuscire attraversa periodi di crisi. E’ normale, non sempre può venir fuori il capolavoro, e di certo non al primo tentativo. L’importante è perseverare, produrre una gran mole di lavoro e non rinunciare mai a colmare il gap che intercorre fra la nostra ambizione, le nostre capacità creative e i risultati che otteniamo in concreto.

4 – Gli errori dei principianti

Quando si prende in mano una videocamera o un registratore per la prima volta (Glass si riferisce all’uso in ambito professionale), è facile commettere due tipi di errori:

  • il novellino si sforza di imitare la gente che ascolta alla radio o vede in televisione

SBAGLIATO

Bisogna essere naturali e rimanere se stessi. Solo così risulteremo davvero convincenti.

  • il novellino tende ad escludersi dalla storia nel timore di sembrare troppo autoreferenziale.

SBAGLIATO

E’ proprio l’interazione che suscita il dramma.

Fiamme di Gadda

 Questa sera a Bari, nell’ambito del Bifest 2013 (Bari International Film Festival), sarà presentato il docu-film “Fiamme di Gadda. A spasso con l’ingegnere”, scritto e diretto da Mario Sesti. Il film si avvale delle testimonianze di studiosi e appassionati dell’opera gaddiana, fra i quali spicca lo scrittore e critico teatrale Maurizio Barletta, e della partecipazione di due attori di fama nazionale come Sergio Rubini e Fabrizio Gifuni. Il film sembra mescolare il cinema d’animazione con la recitazione classica, mentre ricorre alle fonti più disparate per dipingere un ritratto fedele di quest’uomo solitario e tormentato: dalle immagini di repertorio ai documenti inediti, dalla lettura di testi originali ai ricordi di chi l’ha conosciuto.

Il trailer promette cose molto interessanti

Nel 2013 ricorrono i 40 anni dalla morte dell’autore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957) e de “La cognizione del dolore” (1963), capolavori che lo hanno proiettato fra i giganti della letteratura italiana del Novecento. Gadda fu scrittore del caos, del disordine, della complessità, e fu scrittore poliedrico, un ingegnere della parola, lui che l’ingegnere lo fece di professione, almeno fino a quando non scelse di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria.

Gadda fu anche giornalista. Nell’ottobre del 1950 venne assunto dalla RAI come praticante ai servizi culturali del giornale radio, per poi passare al Terzo programma, diventando “professionista” nel 1952. L’esperienza alla RAI finì nel giugno 1955, quando Gadda si dimise dall’incarico per affrontare il lavoro di revisione del “Pasticciaccio”, anche se per alcuni anni continuerà a collaborare saltuariamente ai programmi radiofonici.

In quel periodo scrisse anche uno snello manuale dal titolo “Norme per la redazione di un testo radiofonico” (1953), una specie di circolare interna destinata ai colleghi della RAI, che resta uno dei maggiori contributi al dibattito sul rinnovamento (in primo luogo linguistico) della radio sviluppatosi in Italia durante gli anni Cinquanta. Ne approfitto per pubblicarne un estratto, perché il valore dei suggerimenti di Gadda è giunto intatto fino ad oggi, malgrado l’enorme distanza che separa il nostro tempo, il tempo della televisione prima e di internet poi, da quello del monopolio statale sulla radiofonia. Ecco dunque il vademecum del perfetto giornalista radiofonico, che a ben vedere può essere esteso anche a tutti coloro che scrivono per essere letti, a tutti quelli che di scrittura professionale vorrebbero campare.

Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrenza, potrà ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del “discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi” (Carducci) o la bronzea sintassi de “L’opera di Dante” (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la “orazione” è alquanto decaduta nel gusto del pubblico. La “orazione per la morte di Giuseppe Verdi” recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono “per la morte di Arnold Schoenberg”.

Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante.

Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascolatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già stati enunciati dal nome, dalla “firma”. Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio italiana invita ai microfoni i “grandi” e le “grandi”, vale a dire i competenti. All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto “complesso di inferiorità culturale”, cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Questo “complesso” determina una soluzione di continuità tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un “fading” spirituale nella recezione. […]

Seguono 11 regole auree di scrittura radiofonica:

1) Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.

2) Procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate (causali, ipotetiche, temporali, concessive). All’affermazione: “Cesare, avendo accolto gli esploratori i quali gli riferirono circa i movimenti di Ariovisto, decise di affrontarlo”, sostituire: “Cesare accolse gli esploratori. Seppe dei movimenti di Ariovisto e decise di affrontarlo”.

3) Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l’altra le idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone che porgono il biglietto, l’una dopo l’altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un “écoulement”, di una caduta dal contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al “vuoto radiofonico”.

4) Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L’occhio e la mente di chi legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l’orecchio di chi ascolta non reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico. Seguendo nel parlato un’idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a un’altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da pastore azzanna l’una dopo l’altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso, per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.

5) Curare i passaggi di pensiero e i conseguenti passaggi di tono mediante energica scelta di congiunzioni o particelle appropriate, o con opportuna transizione, o con esplicito avviso (omettere l’avviso, la frase di transizione, unicamente allorché il passaggio possa venir affidato alla voce). L’ascoltatore non è profeta e non può prevedere “quando” il discorso muterà, “quando” il dicitore lascerà un’idea, o un seguito d’idee e d’argomenti, per venire ad altro.

6) Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito. “Questa lirica non è malvagia”. “La prosa del Barbetti non è delle più consolanti”.
Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti.
Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei “non”. Ogni “non” della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: “Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo”. Più radiofonico: “Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz’altro accettabile”.

7) Evitare ogni infelice ricorso a poco aggiudicabili pronomi determinativi o disgiuntivi o numerali o indefiniti, a modi qualificanti o indicanti comunque derivati o desunti dal pronome o dal numero: quello-questo, l’uno-l’altro, il primo-il secondo, esso, quegli, chi, ognuno, il quale, qualsivoglia d’essi, egli, ella, quest’ultimo. Deve apparir chiaro in su le prime a quali termini di una serie enunciata i detti pronomi si riferiscono. In caso contrario è meglio ripetere il termine, cioè il nome. Dopo aver elaborato una struttura sintattica risplendente di quattordici sostantivi singolari maschili uno via l’altro, il riattaccarsi con un “quello” o un “esso” all’uno dei quattordici (a quale?) induce l’ascoltatore in uno stato di tragica perplessità circa l’attribuzione del disperso trovatello (esso, quello) all’uno piuttosto che all’altro dei nomi proferiti. Evitare, possibilmente, di mettere in cantiere una frase come questa: “Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell’insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio (tanto nel fertile piano che sul colle amenissimo) del piccolo ducato e del congiunto priorato, protetti entrambi contro il tentato sopruso dell’esercito di Conestabile e contro il sistematico assedio del reggimento di Catalogna dall’impeto stagionale dell’affluente del Rodano, e sovrastati a tergo dal nero massiccio del Courtadet, già ricetto di un antico raduno conventuale ed ora di un pauroso brigantaggio: quello non meno sciagurato di questo”. Dove “quello” può riferirsi a: veleno del dubbio, vecchio tempo, insicuro pensiero, popolano di borgo, fertile piano, piccolo ducato, sopruso dell’esercito del Conestabile, impeto dell’affluente del Rodano, antico raduno conventuale.

8) Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l’affermazione più pregna di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d’una rima il testo che ne andasse eventualmente adorno.

9) Evitare le allitterazioni involontarie, sia le vocaliche sia le consonantiche, o comunque la ripetizione continuata di un medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla, moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (pàpera). Ciò che è peggio interrompono l’ascolto con deitratti non comprensibili, e non compresi di fatto. All’udire, talvolta, certe frasi di romanza, non si percepisce il significato dei vocaboli, che escono frantumati dalla gola di chi canta: il motivo musicale, ossia l’aria, appoggiato sugli “are” e sugli “ore” di un poetico nonsense, ci avvince con la sua mélode, esaudisce da solo la nostra sete di bellezza.
Ma il parlato radiofonico non è pretesto o supporto a una frase musicale; deve essere compreso per se stesso; il suo valore deriva unicamente dal contenuto logico. Un esempio di allitterazione vocalica: i versi danteschi:

Suso in Itàlia bella, giàce un làco
E quella a cui il Sàvio bàgna il fiànco

orchestrati in a sulle sedi toniche, risultano difficilmente comprensibili all’apparecchio: si risolvono in una irruzione di a nella tromba timpanica dell’ascoltatore frastornato; irruzione a cui non corrisponde, per cause meramente fisiche, un adeguato fissaggio di immagini.

10) Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.

11) Evitare le forme poco usate e però “meravigliose” della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.

Due cose sullo scrivere

Bukowski ha scritto:

[…]

se devi startene seduto per ore

a fissare lo schermo del computer

o curvo sulla

macchina da scrivere

alla ricerca delle parole,

non farlo.

[…]

se devi startene lì a

scrivere e riscrivere,

non farlo.

se è già una fatica il pensiero di farlo,

non farlo.

[…]

se devi aspettare che ti esca come un

ruggito,

allora aspetta pazientemente.

se non ti esce mai come un ruggito,

fai qualcos’altro.

Cos’è soprattutto la scrittura, ispirazione o mestiere? Lui è stato un autore prolifico, soprattutto come poeta, e solo per un breve periodo della sua vita, in vecchiaia, ha sperimentato il famoso blocco dello scrittore, del quale peraltro ha scritto nella speranza di superarlo. Sarà che mi conviene, perché a me non riesce così facile, ma io non la penso proprio come il vecchio Buk. Si può essere scrittori, e anche grandi scrittori, facendo come gli artigiani, che limano, piallano, modellano, smussano, appuntiscono, perdendoci le ore e il cervello, scambiando o rimontando i pezzi finché non ottengono un risultato che assomigli il più possibile all’immagine che avevano in testa prima di iniziare il lavoro. E quando ti capita di vederlo, il risultato, non ti accorgi della fatica e dello sforzo che c’è dietro, a te sembra che sia piovuto dal cielo così, già pronto e impacchettato.

Ho letto da qualche parte che Orhan Pamuk di solito scrive al massimo una pagina al giorno e non penso che questo significhi che non è un grande della letteratura. Probabilmente ancora una volta la verità sta nel mezzo.

Una parte dello scrivere è fatta di perseveranza, pratica, ripetizione; un’altra consiste nell’attesa, l’attesa di un lampo interiore che sveli la formula magica, la combinazione perfetta, guidando la mente verso le dita attraverso la selva dei pensieri e delle parole. Ma una cosa la so per certo: anche quando devo buttar giù una stupidaggine, quando basta mettere in fila qualche frase, c’è sempre un attimo più o meno lungo di silenzio nella testa, di fronte allo spazio bianco, aspettando di trovare le parole giuste per avviare la catena, quelle che danno l’abbrivio per scivolare fino al termine della storia. E alla fine tutto il gusto di scrivere si riduce a questo, all’eccitante momento in cui ti accorgi di aver detto esattamente quello che volevi dire, esattamente come lo volevi dire.         

Passi d’autore #1: Aldous Huxley

Aldous_Huxley_1Helmholtz scosse il capo.  << Niente affatto. Penso a una strana sensazione che provo in certi momenti, la sensazione di avere qualcosa di importante da dire e il potere di dirlo, ma senza sapere che cosa sia, e non posso far uso di questo potere. Se ci fosse un modo diverso di scrivere… oppure qualche altro soggetto intorno a cui scrivere…>>. Tacque, poi riprese: <<Vedi, sono abbastanza abile nell’inventare delle formule: sai bene, quella specie di parole che ti fanno saltar su di colpo, quasi come se ti fossi seduto su uno spillo, tanto sembrano nuove ed eccitanti anche se si riferiscono a qualche soggetto ipnopedicamente evidente. Ma questo non mi sembra sufficiente. Non basta che le formule siano buone; dovrebbe pure essere buono ciò che se ne ricava.>>

<<Ma le cose che scrivi tu sono buone, Helmholtz.>>

<<Oh, fin dove arrivano.>> Helmholtz alzò le spalle. << Ma arrivano assai poco lontano. Non sono, per così dire, abbastanza importanti. Sento che potrei far qualcosa di molto più importante. Sì, di più intenso, di più violento. Ma cosa? Cosa c’è di più importante da dire? E come si può essere più violenti intorno alle cose di cui si deve scrivere? Le parole possono essere paragonate ai Raggi X; se si usano a dovere, attraversano ogni cosa. Leggi, e ti trapassano. Questa è una delle cose che io tento di insegnare ai miei studenti, a scrivere in maniera da colpire a fondo. Ma a che serve essere colpiti da un articolo sui Canti Corali o sull’ultimo perfezionamento degli organi a profumo? E poi, si riesce forse a scrivere delle parole veramente attraversanti – capisci, come i Raggi X più duri – quando si tratta di argomenti di questo genere? Si riesce a dire qualcosa intorno a nulla? Ecco a che si riduce ciò, in fondo. Tento e tento…>>.

(da Il mondo nuovo, 1932. Traduzione di Lorenzo Gigli e Luciano Bianciardi)