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Giro d’Italia: doping sportivo, doping giornalistico e quella volta che tifai Di Luca sotto il Colosseo

La confessione di Lance Armstrong sarebbe dovuta bastare a seppellire il ciclismo professionistico per l’eternità, anche se fosse stato il primo caso di doping nella storia di questo sport. Innanzitutto per motivi simbolici: Armstrong era considerato a ragione uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi; non riusciva ad esaltare gli appassionati come altri suoi colleghi molto meno vincenti di lui, ma se è vero che il palmarès non sempre rispecchia fedelmente la statura di un campione, è altrettanto vero che si può contestare ben poco a un corridore capace di conquistare 7 Tour, unico nella storia della Grande Boucle, e di riuscire nell’impresa dopo essere scampato al cancro.

Ma è anche una questione di logica.

Non sono un esperto di medicina sportiva, ma se il più forte di tutti – quindi il più esposto ai controlli e alla lente d’ingrandimento del sospetto – riesce a farla franca per sette anni di fila, vuol dire che c’è qualcosa, tutto che non funziona a dovere. La faccenda diventa esiziale, poi, quando il texano afferma che senza EPO e sostanze illegali sarebbe stato impossibile vincere così tanto, lasciando intendere a chi ha orecchie per intendere che il doping rappresenta ormai la norma, non l’eccezione.

Conclusione? L’ex uomo bionico ha vinto più di tutti non perché era l’unico a doparsi ma perché aveva trovato il modo di farlo senza essere beccato. L’ha sottinteso un gelido Lance nell’intervista a Oprah Winfrey, l’hanno bisbigliato a mezza bocca tanti addetti al mestiere prima di lui.

Il caso Armstrong è invecchiato precocemente, così l’edificio è rimasto in piedi, nemmeno troppo scosso dal violento terremoto, ben saldo sulle sue marce fondamenta. Ben saldo proprio perché marcio.

Nessuno si aspettava che andasse a finire in modo diverso.

Anche quest’anno ho deciso di seguire il Giro d’Italia in TV, contravvenendo ai miei ferrei propositi della vigilia. Decidere non è il verbo appropriato, perché mettere sul 3 quando scatta l’ora del Giro è un’attrazione fatale, una specie di malia, la stessa che costringe il cobra a uscire dalla cesta dritto dritto come un bastone quando l’incantatore inizia a suonare il pungi. Mi sono affezionato a Visconti e a Nibali, “lo squalo dello Stretto”, che mi è sempre piaciuto per la sua incoscienza, per quel modo di attaccare fregandosene dei rischi e dei calcoli di classifica. Oggi Nibali è più maturo, è diventato un campione, e al momento è il miglior corridore di corse a tappe che il ciclismo italiano possa vantare, l’unico in grado di contendere la maglia gialla ai vari Wiggins, Contador, Evans, Froome, Schleck.

Vincenzo Nibali festeggia la vittoria del Giro sul podio di Brescia.

Vincenzo Nibali festeggia la vittoria del Giro sul podio di Brescia.

Spero proprio che a Giro concluso la classifica non subisca modifiche forzate. Qualcuno che risulterà positivo ai controlli salterà fuori, ma mi auguro con tutto il cuore che almeno i migliori dieci non incappino nella tagliola dell’antidoping. Non sarebbe una novità e io mi sarei illuso per l’ennesima volta di aver assistito ad una lotta vera, ad una fatica reale. Non è piacevole scoprire di aver applaudito e incitato il nulla. Davvero brutto a dirsi, ma penso sia questa la sensazione che provano tutti gli appassionati di questo sport meraviglioso, che continuano ad affollare le strade, che continuano a seguire le corse nonostante tutto, consapevoli di tutto. Il doping è un orribile tarlo: se non è ancora riuscito a divorare il ciclismo agonistico, si è già portato via l’innocenza dagli occhi degli spettatori.

La guerra al doping è questione composita, che non si risolve con i controlli incrociati e le squalifiche pesanti, pur essenziali. Serve un approccio culturale al problema che sia promosso dall’alto dei vertici organizzativi e sviluppato dagli allenatori, dai preparatori atletici, dagli sponsor, dalla medicina sportiva, a partire dal settore giovanile. E che coinvolga anche i giornalisti, perché sì, anche i giornalisti hanno le loro responsabilità.

Io capisco tutto. Capisco che per un cronista sia difficile trattare l’argomento in piena diretta corsa: non giova agli ascolti e poi se uno sceglie di crederci ancora, nel ciclismo, anche se finge di crederci ancora, non può stare lì a piantar troppe grane. Che ne so, ipotizziamo un Sella che scatta in salita. Sarebbe stupido ricordare, mentre quello sta in fuga, che Sella nel 2008 un altro po’ vinceva il Giro da semisconosciuto, scalando le montagne che nemmeno Coppi, per poi essere beccato con tanto di quel CERA nel sangue da far scoppiare le vene.

“Sella pedala ancora benissimo, va su agile, ora ha quasi 2 minuti sul gruppo maglia rosa. Però ricordiamo ai nostri telespettatori che Sella potrebbe essere dopato, è stato squalificato l’altr’anno per positività all’EPO di terza generazione.”

Alessandra De Stefano, conduttrice del Processo alla tappa.

Alessandra De Stefano, conduttrice del Processo alla tappa.

Non è il caso, lo capisco perfettamente. In quel “potrebbe” risiede tutto il dramma del ciclismo moderno; il “potrebbe” che uccise Pantani. Capisco pure che racconto epico e bicicletta vanno a braccetto; senza l’alone di leggenda il ciclismo non avrebbe lo stesso fascino. Capisco che per un giornalista specializzato significherebbe appendere il microfono al chiodo e cambiare mestiere, o almeno sport. Capisco tutto ciò e apprezzo la passione e la competenza dei cronisti, specialmente di quelli RAI, ma sarebbe ora che la smettessero con l’incenso, con la retorica dell’eroe, ché non ci crede più nessuno e soprattutto non risolve il problema. Non risolve il problema considerare il doping un argomento tabù: sappiamo che c’è, che grava come un macigno sulla credibilità del ciclismo agonistico, ma non se ne può parlare.

“Eh già, è proprio vero, non bisogna smettere mai di ripeterlo: questi ragazzi sono fantastici, cadono ma si rialzano sempre. Soffrono, soffrono come cani, sotto la pioggia, sotto la neve, dentro l’arsura estiva, qualcuno solo per esserci o per aiutare a vincere il compagno di squadra più veloce.”

Mai una parola sul passato torbido dei ciclisti di prima fascia, mai un accenno ai fatti. Sino a pochi giorni fa, Pancani, Cassani e la più lirica dello staff di RAI Sport che segue la “corsa rosa”, Alessandra De Stefano, tessevano le lodi di Di Luca che non riusciva a vincere perché, poverino, aveva solo una corsa nelle gambe. Ma a dispetto dello scarso allenamento, lui, il “Killer di Spoltore” ,  c’aveva provato lo stesso, in ogni modo, a prendersi una tappa. Un mastino. Poi abbiamo visto chi è davvero Danilo Di Luca.

Aleksandr Vinokourov, ex ciclista kazako e attuale general manager dell'Astana. Fra i propri successi vanta anche un oro olimpico nella prova in linea di Londra 2012

Aleksandr Vinokourov, ex ciclista kazako e attuale general manager dell’Astana. Fra i propri successi vanta anche un oro olimpico nella prova in linea di Londra 2012

Qualche pomeriggio fa ho sentito tutta la compagnia del “Processo alla tappa” scherzare su Vinokourov, da sempre mitizzato, sorvolando sui trascorsi tutt’altro che immacolati del kazako. Magari sono io che esagero, ma porca miseria, Vinokourov prese una squalifica di un anno per doping; Vinokourov è quello che ha pagato 150 mila euro al compagno di fuga perché gli lasciasse vincere la Liegi-Bastogne-Liegi. Oggi lo stesso Vinokourov è il general manager dell’Astana, la squadra della maglia rosa e una delle corazzate del circuito professionistico. Questo dovrebbero dire, non ostinarsi a celebrare ogni allungo a mezzo chilometro dal traguardo come un’impresa d’altri tempi.

Una sobrietà montiana, ecco quello che ci vorrebbe in certi casi.

A PROPOSITO DI DI LUCA.

Nel 2009 l’ultima tappa del giro si corse a Roma, traguardo al Colosseo. Era il Giro del centenario. Decisi di andarci insieme ad un mio amico. Noi che la domenica mattina è difficile schiodarci da casa, partimmo per tifare Di Luca che stava per giocarsi la vittoria finale con Menchov, in una crono individuale che non gli lasciava troppe speranze. Il russo si era dimostrato più forte durante tutta la corsa, di poco più forte, ma Danilo si era battuto come una tigre fino alla fine, senza mai darsi per vinto, e questo bastava. Sapevamo che non ce l’avrebbe fatta e lo sapeva pure lui.

Essendo i primi due della generale, Di Luca e Menchov partono per ultimi. Cielo grigio e pioggerellina intermittente che promette di vivacizzare la gara. “Il killer di Spoltore” ha la fortuna di pedalare su strada asciutta e corre un’ottima crono. Menchov invece trova l’umido ma fila dritto lo stesso come una locomotiva fino a pochi metri dal traguardo. Poi l’imprevisto. Il russo scivola sui sampietrini lisci come sapone e finisce a terra. Per un attimo il Giro sembra riaprirsi ma alla fine Menchov taglia il traguardo con un vantaggio di circa quaranta secondi sul nostro beniamino. Poco male: l’esito era scontato, Di Luca aveva fatto il massimo e noi avevamo assaporato il brivido del miracolo.

Tutto ci sembrava perfetto, proprio perché Di Luca aveva perso, e perso a quella maniera, con gloria. Una sconfitta perfetta per un pomeriggio di sport perfetto. Riuscimmo ad arrivare fin sotto il podio. La gente voleva Di Luca. A Menchov fu consegnata la coppa a spirale, ma soltanto quando toccò a Danilo la folla esplose in un boato. Il mio amico ed io eravamo fra i più scalmanati. Di Luca se ne accorse o almeno così ci sembrò in quegli attimi di euforia. Sta di fatto che diresse la bottiglia di spumante verso di noi, la stappò e fummo i primi ad essere innaffiati di bollicine. I giornalisti gli chiesero cosa gli fosse passato per la testa quando aveva visto cadere Menchov. Rispose che non gli sarebbe piaciuto vincere in quel modo. Scontato ma vero, sarebbe stato un successo dimezzato.

Sul podio sorrideva tranquillo. Era il sorriso della Gioconda. Risultò positivo al CERA in occasione di due controlli antidoping effettuati durante la corsa.

Di Luca s’era dopato. Gli tolsero il secondo posto.

 

 

Lunga vita a “La Storia siamo noi” !

 Il petrolio come asse portante del Novecento, il Caucaso come eldorado da colonizzare e prosciugare, costi quel che costi, terra promessa di una febbre dell’oro, non biondo stavolta, ma nero. Le sette sorelle come pupari che tirano le fila dell’economia e della politica globali, i pozzi mediorientali e asiatici come spinta iniziale di tutte le guerre da Hitler a Bush junior, dalla battaglia di Stalingrado al pantano iracheno.

L’approvvigionamento energetico come questione delle questioni. Enrico Mattei che avendolo capito sfida multinazionali e governi per far grande l’Italia.

Una bella lezione a firma di “La Storia siamo noi” , trasmessa ieri mattina da Rai Tre. La trovate qui.

Se ce ne fosse ancora bisogno, un’altra occasione per ricordare a questo servizio poco pubblico e molto autolesionista che programmi come quello di Minoli non si cancellano, quale che sia la ragione.

Punto e basta.

Il “Far East Film Festival” su Mymovies

 Solo per segnalare che ieri, a Udine, si è aperta la 15esima edizione del “Far East Film Festival” (durerà fino al 27 aprile), l’importante manifestazione dedicata al cinema popolare asiatico, e che alcuni dei film in calendario si possono vedere gratuitamente in streaming sulla piattaforma “MYMOVIESLIVE!” . La rassegna online “Wide Far East Film” comprende una selezione di anteprime web italiane ed europee e alcune pellicole presentate nelle scorse edizioni. Stasera, alle 9:30, “No Blood No Tears” del sudcoreano Ryoo Seung-wan, in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Per di più, proprio in occasione del festival, Rai 4 trasmetterà otto film, anche questi proiettati negli anni passati all’interno della kermesse cinematografica. Ad inaugurare il ciclo sarà “Connected“, film d’azione di Benny Chan, che andrà in onda all’una di stanotte. Qui gli altri film in programma.

Roberto Calasso a “Che tempo che fa”: i libri salvano la vita

Ieri sera Roberto Calasso è stato ospite di “Che tempo che fa” per presentare il suo ultimo libro, “L’impronta dell’editore”. Ha parlato di Adelphi (di cui è direttore editoriale), che a novembre compirà 50 anni, di editoria, di storia dell’editoria, di libri  e cultura digitale. Parole preziose, da mandare a memoria.

Fiamme di Gadda

 Questa sera a Bari, nell’ambito del Bifest 2013 (Bari International Film Festival), sarà presentato il docu-film “Fiamme di Gadda. A spasso con l’ingegnere”, scritto e diretto da Mario Sesti. Il film si avvale delle testimonianze di studiosi e appassionati dell’opera gaddiana, fra i quali spicca lo scrittore e critico teatrale Maurizio Barletta, e della partecipazione di due attori di fama nazionale come Sergio Rubini e Fabrizio Gifuni. Il film sembra mescolare il cinema d’animazione con la recitazione classica, mentre ricorre alle fonti più disparate per dipingere un ritratto fedele di quest’uomo solitario e tormentato: dalle immagini di repertorio ai documenti inediti, dalla lettura di testi originali ai ricordi di chi l’ha conosciuto.

Il trailer promette cose molto interessanti

Nel 2013 ricorrono i 40 anni dalla morte dell’autore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957) e de “La cognizione del dolore” (1963), capolavori che lo hanno proiettato fra i giganti della letteratura italiana del Novecento. Gadda fu scrittore del caos, del disordine, della complessità, e fu scrittore poliedrico, un ingegnere della parola, lui che l’ingegnere lo fece di professione, almeno fino a quando non scelse di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria.

Gadda fu anche giornalista. Nell’ottobre del 1950 venne assunto dalla RAI come praticante ai servizi culturali del giornale radio, per poi passare al Terzo programma, diventando “professionista” nel 1952. L’esperienza alla RAI finì nel giugno 1955, quando Gadda si dimise dall’incarico per affrontare il lavoro di revisione del “Pasticciaccio”, anche se per alcuni anni continuerà a collaborare saltuariamente ai programmi radiofonici.

In quel periodo scrisse anche uno snello manuale dal titolo “Norme per la redazione di un testo radiofonico” (1953), una specie di circolare interna destinata ai colleghi della RAI, che resta uno dei maggiori contributi al dibattito sul rinnovamento (in primo luogo linguistico) della radio sviluppatosi in Italia durante gli anni Cinquanta. Ne approfitto per pubblicarne un estratto, perché il valore dei suggerimenti di Gadda è giunto intatto fino ad oggi, malgrado l’enorme distanza che separa il nostro tempo, il tempo della televisione prima e di internet poi, da quello del monopolio statale sulla radiofonia. Ecco dunque il vademecum del perfetto giornalista radiofonico, che a ben vedere può essere esteso anche a tutti coloro che scrivono per essere letti, a tutti quelli che di scrittura professionale vorrebbero campare.

Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrenza, potrà ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del “discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi” (Carducci) o la bronzea sintassi de “L’opera di Dante” (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la “orazione” è alquanto decaduta nel gusto del pubblico. La “orazione per la morte di Giuseppe Verdi” recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono “per la morte di Arnold Schoenberg”.

Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante.

Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascolatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già stati enunciati dal nome, dalla “firma”. Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio italiana invita ai microfoni i “grandi” e le “grandi”, vale a dire i competenti. All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto “complesso di inferiorità culturale”, cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Questo “complesso” determina una soluzione di continuità tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un “fading” spirituale nella recezione. […]

Seguono 11 regole auree di scrittura radiofonica:

1) Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.

2) Procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate (causali, ipotetiche, temporali, concessive). All’affermazione: “Cesare, avendo accolto gli esploratori i quali gli riferirono circa i movimenti di Ariovisto, decise di affrontarlo”, sostituire: “Cesare accolse gli esploratori. Seppe dei movimenti di Ariovisto e decise di affrontarlo”.

3) Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l’altra le idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone che porgono il biglietto, l’una dopo l’altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un “écoulement”, di una caduta dal contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al “vuoto radiofonico”.

4) Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L’occhio e la mente di chi legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l’orecchio di chi ascolta non reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico. Seguendo nel parlato un’idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a un’altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da pastore azzanna l’una dopo l’altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso, per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.

5) Curare i passaggi di pensiero e i conseguenti passaggi di tono mediante energica scelta di congiunzioni o particelle appropriate, o con opportuna transizione, o con esplicito avviso (omettere l’avviso, la frase di transizione, unicamente allorché il passaggio possa venir affidato alla voce). L’ascoltatore non è profeta e non può prevedere “quando” il discorso muterà, “quando” il dicitore lascerà un’idea, o un seguito d’idee e d’argomenti, per venire ad altro.

6) Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito. “Questa lirica non è malvagia”. “La prosa del Barbetti non è delle più consolanti”.
Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti.
Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei “non”. Ogni “non” della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: “Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo”. Più radiofonico: “Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz’altro accettabile”.

7) Evitare ogni infelice ricorso a poco aggiudicabili pronomi determinativi o disgiuntivi o numerali o indefiniti, a modi qualificanti o indicanti comunque derivati o desunti dal pronome o dal numero: quello-questo, l’uno-l’altro, il primo-il secondo, esso, quegli, chi, ognuno, il quale, qualsivoglia d’essi, egli, ella, quest’ultimo. Deve apparir chiaro in su le prime a quali termini di una serie enunciata i detti pronomi si riferiscono. In caso contrario è meglio ripetere il termine, cioè il nome. Dopo aver elaborato una struttura sintattica risplendente di quattordici sostantivi singolari maschili uno via l’altro, il riattaccarsi con un “quello” o un “esso” all’uno dei quattordici (a quale?) induce l’ascoltatore in uno stato di tragica perplessità circa l’attribuzione del disperso trovatello (esso, quello) all’uno piuttosto che all’altro dei nomi proferiti. Evitare, possibilmente, di mettere in cantiere una frase come questa: “Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell’insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio (tanto nel fertile piano che sul colle amenissimo) del piccolo ducato e del congiunto priorato, protetti entrambi contro il tentato sopruso dell’esercito di Conestabile e contro il sistematico assedio del reggimento di Catalogna dall’impeto stagionale dell’affluente del Rodano, e sovrastati a tergo dal nero massiccio del Courtadet, già ricetto di un antico raduno conventuale ed ora di un pauroso brigantaggio: quello non meno sciagurato di questo”. Dove “quello” può riferirsi a: veleno del dubbio, vecchio tempo, insicuro pensiero, popolano di borgo, fertile piano, piccolo ducato, sopruso dell’esercito del Conestabile, impeto dell’affluente del Rodano, antico raduno conventuale.

8) Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l’affermazione più pregna di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d’una rima il testo che ne andasse eventualmente adorno.

9) Evitare le allitterazioni involontarie, sia le vocaliche sia le consonantiche, o comunque la ripetizione continuata di un medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla, moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (pàpera). Ciò che è peggio interrompono l’ascolto con deitratti non comprensibili, e non compresi di fatto. All’udire, talvolta, certe frasi di romanza, non si percepisce il significato dei vocaboli, che escono frantumati dalla gola di chi canta: il motivo musicale, ossia l’aria, appoggiato sugli “are” e sugli “ore” di un poetico nonsense, ci avvince con la sua mélode, esaudisce da solo la nostra sete di bellezza.
Ma il parlato radiofonico non è pretesto o supporto a una frase musicale; deve essere compreso per se stesso; il suo valore deriva unicamente dal contenuto logico. Un esempio di allitterazione vocalica: i versi danteschi:

Suso in Itàlia bella, giàce un làco
E quella a cui il Sàvio bàgna il fiànco

orchestrati in a sulle sedi toniche, risultano difficilmente comprensibili all’apparecchio: si risolvono in una irruzione di a nella tromba timpanica dell’ascoltatore frastornato; irruzione a cui non corrisponde, per cause meramente fisiche, un adeguato fissaggio di immagini.

10) Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.

11) Evitare le forme poco usate e però “meravigliose” della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.