La confessione di Lance Armstrong sarebbe dovuta bastare a seppellire il ciclismo professionistico per l’eternità, anche se fosse stato il primo caso di doping nella storia di questo sport. Innanzitutto per motivi simbolici: Armstrong era considerato a ragione uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi; non riusciva ad esaltare gli appassionati come altri suoi colleghi molto meno vincenti di lui, ma se è vero che il palmarès non sempre rispecchia fedelmente la statura di un campione, è altrettanto vero che si può contestare ben poco a un corridore capace di conquistare 7 Tour, unico nella storia della Grande Boucle, e di riuscire nell’impresa dopo essere scampato al cancro.
Ma è anche una questione di logica.
Non sono un esperto di medicina sportiva, ma se il più forte di tutti – quindi il più esposto ai controlli e alla lente d’ingrandimento del sospetto – riesce a farla franca per sette anni di fila, vuol dire che c’è qualcosa, tutto che non funziona a dovere. La faccenda diventa esiziale, poi, quando il texano afferma che senza EPO e sostanze illegali sarebbe stato impossibile vincere così tanto, lasciando intendere a chi ha orecchie per intendere che il doping rappresenta ormai la norma, non l’eccezione.
Conclusione? L’ex uomo bionico ha vinto più di tutti non perché era l’unico a doparsi ma perché aveva trovato il modo di farlo senza essere beccato. L’ha sottinteso un gelido Lance nell’intervista a Oprah Winfrey, l’hanno bisbigliato a mezza bocca tanti addetti al mestiere prima di lui.
Il caso Armstrong è invecchiato precocemente, così l’edificio è rimasto in piedi, nemmeno troppo scosso dal violento terremoto, ben saldo sulle sue marce fondamenta. Ben saldo proprio perché marcio.
Nessuno si aspettava che andasse a finire in modo diverso.
Anche quest’anno ho deciso di seguire il Giro d’Italia in TV, contravvenendo ai miei ferrei propositi della vigilia. Decidere non è il verbo appropriato, perché mettere sul 3 quando scatta l’ora del Giro è un’attrazione fatale, una specie di malia, la stessa che costringe il cobra a uscire dalla cesta dritto dritto come un bastone quando l’incantatore inizia a suonare il pungi. Mi sono affezionato a Visconti e a Nibali, “lo squalo dello Stretto”, che mi è sempre piaciuto per la sua incoscienza, per quel modo di attaccare fregandosene dei rischi e dei calcoli di classifica. Oggi Nibali è più maturo, è diventato un campione, e al momento è il miglior corridore di corse a tappe che il ciclismo italiano possa vantare, l’unico in grado di contendere la maglia gialla ai vari Wiggins, Contador, Evans, Froome, Schleck.
Spero proprio che a Giro concluso la classifica non subisca modifiche forzate. Qualcuno che risulterà positivo ai controlli salterà fuori, ma mi auguro con tutto il cuore che almeno i migliori dieci non incappino nella tagliola dell’antidoping. Non sarebbe una novità e io mi sarei illuso per l’ennesima volta di aver assistito ad una lotta vera, ad una fatica reale. Non è piacevole scoprire di aver applaudito e incitato il nulla. Davvero brutto a dirsi, ma penso sia questa la sensazione che provano tutti gli appassionati di questo sport meraviglioso, che continuano ad affollare le strade, che continuano a seguire le corse nonostante tutto, consapevoli di tutto. Il doping è un orribile tarlo: se non è ancora riuscito a divorare il ciclismo agonistico, si è già portato via l’innocenza dagli occhi degli spettatori.
La guerra al doping è questione composita, che non si risolve con i controlli incrociati e le squalifiche pesanti, pur essenziali. Serve un approccio culturale al problema che sia promosso dall’alto dei vertici organizzativi e sviluppato dagli allenatori, dai preparatori atletici, dagli sponsor, dalla medicina sportiva, a partire dal settore giovanile. E che coinvolga anche i giornalisti, perché sì, anche i giornalisti hanno le loro responsabilità.
Io capisco tutto. Capisco che per un cronista sia difficile trattare l’argomento in piena diretta corsa: non giova agli ascolti e poi se uno sceglie di crederci ancora, nel ciclismo, anche se finge di crederci ancora, non può stare lì a piantar troppe grane. Che ne so, ipotizziamo un Sella che scatta in salita. Sarebbe stupido ricordare, mentre quello sta in fuga, che Sella nel 2008 un altro po’ vinceva il Giro da semisconosciuto, scalando le montagne che nemmeno Coppi, per poi essere beccato con tanto di quel CERA nel sangue da far scoppiare le vene.
“Sella pedala ancora benissimo, va su agile, ora ha quasi 2 minuti sul gruppo maglia rosa. Però ricordiamo ai nostri telespettatori che Sella potrebbe essere dopato, è stato squalificato l’altr’anno per positività all’EPO di terza generazione.”
Non è il caso, lo capisco perfettamente. In quel “potrebbe” risiede tutto il dramma del ciclismo moderno; il “potrebbe” che uccise Pantani. Capisco pure che racconto epico e bicicletta vanno a braccetto; senza l’alone di leggenda il ciclismo non avrebbe lo stesso fascino. Capisco che per un giornalista specializzato significherebbe appendere il microfono al chiodo e cambiare mestiere, o almeno sport. Capisco tutto ciò e apprezzo la passione e la competenza dei cronisti, specialmente di quelli RAI, ma sarebbe ora che la smettessero con l’incenso, con la retorica dell’eroe, ché non ci crede più nessuno e soprattutto non risolve il problema. Non risolve il problema considerare il doping un argomento tabù: sappiamo che c’è, che grava come un macigno sulla credibilità del ciclismo agonistico, ma non se ne può parlare.
“Eh già, è proprio vero, non bisogna smettere mai di ripeterlo: questi ragazzi sono fantastici, cadono ma si rialzano sempre. Soffrono, soffrono come cani, sotto la pioggia, sotto la neve, dentro l’arsura estiva, qualcuno solo per esserci o per aiutare a vincere il compagno di squadra più veloce.”
Mai una parola sul passato torbido dei ciclisti di prima fascia, mai un accenno ai fatti. Sino a pochi giorni fa, Pancani, Cassani e la più lirica dello staff di RAI Sport che segue la “corsa rosa”, Alessandra De Stefano, tessevano le lodi di Di Luca che non riusciva a vincere perché, poverino, aveva solo una corsa nelle gambe. Ma a dispetto dello scarso allenamento, lui, il “Killer di Spoltore” , c’aveva provato lo stesso, in ogni modo, a prendersi una tappa. Un mastino. Poi abbiamo visto chi è davvero Danilo Di Luca.
Qualche pomeriggio fa ho sentito tutta la compagnia del “Processo alla tappa” scherzare su Vinokourov, da sempre mitizzato, sorvolando sui trascorsi tutt’altro che immacolati del kazako. Magari sono io che esagero, ma porca miseria, Vinokourov prese una squalifica di un anno per doping; Vinokourov è quello che ha pagato 150 mila euro al compagno di fuga perché gli lasciasse vincere la Liegi-Bastogne-Liegi. Oggi lo stesso Vinokourov è il general manager dell’Astana, la squadra della maglia rosa e una delle corazzate del circuito professionistico. Questo dovrebbero dire, non ostinarsi a celebrare ogni allungo a mezzo chilometro dal traguardo come un’impresa d’altri tempi.
Una sobrietà montiana, ecco quello che ci vorrebbe in certi casi.
A PROPOSITO DI DI LUCA.
Nel 2009 l’ultima tappa del giro si corse a Roma, traguardo al Colosseo. Era il Giro del centenario. Decisi di andarci insieme ad un mio amico. Noi che la domenica mattina è difficile schiodarci da casa, partimmo per tifare Di Luca che stava per giocarsi la vittoria finale con Menchov, in una crono individuale che non gli lasciava troppe speranze. Il russo si era dimostrato più forte durante tutta la corsa, di poco più forte, ma Danilo si era battuto come una tigre fino alla fine, senza mai darsi per vinto, e questo bastava. Sapevamo che non ce l’avrebbe fatta e lo sapeva pure lui.
Essendo i primi due della generale, Di Luca e Menchov partono per ultimi. Cielo grigio e pioggerellina intermittente che promette di vivacizzare la gara. “Il killer di Spoltore” ha la fortuna di pedalare su strada asciutta e corre un’ottima crono. Menchov invece trova l’umido ma fila dritto lo stesso come una locomotiva fino a pochi metri dal traguardo. Poi l’imprevisto. Il russo scivola sui sampietrini lisci come sapone e finisce a terra. Per un attimo il Giro sembra riaprirsi ma alla fine Menchov taglia il traguardo con un vantaggio di circa quaranta secondi sul nostro beniamino. Poco male: l’esito era scontato, Di Luca aveva fatto il massimo e noi avevamo assaporato il brivido del miracolo.
Tutto ci sembrava perfetto, proprio perché Di Luca aveva perso, e perso a quella maniera, con gloria. Una sconfitta perfetta per un pomeriggio di sport perfetto. Riuscimmo ad arrivare fin sotto il podio. La gente voleva Di Luca. A Menchov fu consegnata la coppa a spirale, ma soltanto quando toccò a Danilo la folla esplose in un boato. Il mio amico ed io eravamo fra i più scalmanati. Di Luca se ne accorse o almeno così ci sembrò in quegli attimi di euforia. Sta di fatto che diresse la bottiglia di spumante verso di noi, la stappò e fummo i primi ad essere innaffiati di bollicine. I giornalisti gli chiesero cosa gli fosse passato per la testa quando aveva visto cadere Menchov. Rispose che non gli sarebbe piaciuto vincere in quel modo. Scontato ma vero, sarebbe stato un successo dimezzato.
Sul podio sorrideva tranquillo. Era il sorriso della Gioconda. Risultò positivo al CERA in occasione di due controlli antidoping effettuati durante la corsa.
Di Luca s’era dopato. Gli tolsero il secondo posto.